Mancano 12 giorni al 5 dicembre, giorno in cui partirà l'embargo sul petrolio russo, la pressione sul governo per trovare il modo di non far chiudere il petrolchimico di Priolo cresce sempre più. Ormai, tra le poltrone più alte dell'esecutivo, si considera l'ipotesi di nazionalizzare l'impianto, tra i più grandi d'Europa con 300 mila barili al giorno di capacità di raffinazione. Ma si tratta di un piano di emergenza e ancora embrionale: anche perché, oltre al valore dell'azienda, ci sarebbero da pagare i costi delle future bonifiche, stimati da fonti del settore in almeno 5 miliardi di euro. Anche per questo lo scenario non viene commentato dal governo.

La situazione nel polo siracusano che occupa circa 10 mila persone - 1.600 della major russa Lukoil che lo gestisce, il resto nell'indotto, con contratti di servizio a rischio di rottura per 500 milioni - è precipitata in due fasi. La prima, spiega La Repubblica, dopo l'avvio della guerra in Ucraina, quando le sanzioni hanno cancellato le lettere di credito bancarie da circa 1,5 miliardi con cui Lukoil comprava greggio diterzi da raffinare. La seconda a fine maggio, quando l'Europa ha deciso l'embargo al petrolio russo, che dopo la ritirata delle banche Lukoil aveva cominciato a trasportare in Sicilia per la raffinazione.

I canali sono tutti aperti. Giorni fa è sfumata una trattativa con il fondo Usa Crossbridge Energy Partners, che si era fatto avanti per comprare la raffineria che nel 2021 ha fatturato 4 miliardi di euro. Ma secondo fonti politiche gli americani si sono tirati indietro per l'indisponibilità a pagare i futuri costi di bonifica dell'area. Un'altra soluzione, finora in stallo, sarebbe che Lukoil - non sanzionata in Europa né negli Usa - e il governo convincessero le banche italiane a finanziare nuovi acquisti di petrolio non russo. Finora non è bastata però la disponibilità delle garanzie pubbliche di Sace fino all'80% degli importi, perché gli istituti temono, oltre alle perdite sul 20%, anche di incappare in future multe salate per aver rotto l'embargo.

Mentre il tempo passa, i tecnici studiano la complessità, che pare rilevante per la legge italiana, di nazionalizzare forzosamente una proprietà russa non sottoposta a sanzioni. Qualcuno tra i politici del governo, invece, accarezza l'idea di riportare la raffineria sotto l'ala dell'Eni, che nel 2002 la cedette a Erg (venditore a Lukoil nel 2013). Una portavoce di Eni fa sapere che "l'ipotesi non è mai stata considerata". Anche qui, le complessità sarebbero tante. L'Eni di oggi non è la stessa di vent'anni fa: il 70% del capitale appartiene a fondi privati, e nel 2020 ha varato un piano per traguardare, al 2050, la neutralità carbonica. Per cercare di trovare una quadra sarebbe utile più tempo: e non è da escludere che il governo chieda alla Commissione europea una deroga di due anni all'embargo, come chiesto e ottenuto da Bulgaria e Romania per le raffinerie di Lukoil nei loro confini.

Ieri, a Roma, i ministri Adolfo Urso (imprese e made in Italy) e Gilberto Pichetto Fratin (ambiente), hanno incontrato emissari della Regione Siciliana e dei sindacati; e a Siracusa i lavoratori convocati da Cgil e Uil sfilavano contro il rischio, concreto, di un Natale senza lavoro.

cos

 

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November 23, 2022 04:50 ET (09:50 GMT)

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